FUTURISMO E AEROPITTURA PT.3

A proposito del nuovo “dinamismo” spirituale che stava diffondendosi ormai ovunque, va ricordato che, proprio in quegli anni, il cinema stava diventando l’emblema più efficace del nuovo spirito estetico europeo. Dal 1887 al 1895 l’immagine cominciò a muoversi – sì, proprio come la vita, che l’arte aveva sempre cercato di restituire nella forma potenziata di cui solo essa sembrava capace.
Tutto vero… ribadiamo. Ma, il futurismo, di fatto e in sostanza, guardava altrove; anche se, per un certo verso, è innegabile che le nuove tecnologie cominciassero a rendere anche empiricamente possibile la reduplicazione della verità della vita sullo schermo virtuale dell’artisticità.
Dunque, il futurismo guardava altrove… – si diceva.
Ma, dove, propriamente ? O anche: verso cosa?
Quale stava diventando, cioè, la sua reale ossessione?
Una sola, di fatto: ovvero, la vita della materia.
Non quella delle cose, delle persone o degli oggetti.
Cioè, non il dinamismo delle cose in movimento, ma piuttosto “il movimento” ‘delle cose’. Vale a dire: il loro dinamismo intrinseco ed originario – che nulla ha davvero a che fare con quello dispiegantesi nello spazio. Quello catturato dai fotogrammi della pellicola cinematografica… la stessa che, anche sullo schermo bianco della proiezione, finisce per ribadire il medesimo mondo di oggettualità in movimento che già l’esperienza quotidiana ci presenta quale indubitabile realtà.Così come si sarebbe potuto dire tanto per i Cubisti che per gli Impressionisti; ma sicuramente anche per gli Espressionisti.
Il fatto è che tutte le forme più interessanti dell’espressività moderna avevano cercato di adeguare lo spazio immobile della tela o della scultura al dinamismo oggettuale che tutto rendeva ormai contingente, senza peraltro intaccare la verità sostanziale di quel che mutava, e dunque la sua perfetta idealità. E il cinema v’era riuscito meglio di tutte le altre arti; anche se solo in virtù di una eccezionale scoperta tecnica.
Eppure, il Futurismo – insistiamo – guardava altrove.
Boccioni l’avrebbe chiarito con una nettezza sorprendente. “Quando parliamo di movimento non è una preoccupazione cinematografica che ci guida, né una sciocca gara con l’istantanea, né la puerile curiosità di osservare e fissare la traiettoria che un oggetto percorre spostandosi da un punto A a un punto B”3.Non sarebbe cioè bastato impegnarsi a rappresentare una realtà fatta non più di ‘essenze’, ma di esistenze in movimento – a partire dalla consapevolezza del fatto che nulla “sta”, se non in relazione a qualcos’altro che muta, e dunque diviene… ossia, non-sta.
Certo, ormai lo si sapeva bene: anche lo ‘stare’ dice invero una forma di in-stabilità…. ché, nel permanere di quel che, permanendo, non muta, anche il permanente si modifica – ovvero, è sempre diverso da sé. A modificarsi è infatti sempre e comunque quel che, rimanendo, non si sarebbe dovuto affatto modificare. Perché, è sempre dello ‘stesso’ (lo stesso di prima) che riconosciamo di fatto il non esser più così come era prima, per l’appunto.
Ormai era chiaro a tutti: anche lo stare doveva essere inteso, e con sempre maggior chiarezza, come una forma specifica dell’instabilità… e quindi della tensione costituita dal “divenire” in quanto tale.
In ogni caso, sulla ‘vita’ delle cose tutte e sul loro divenire si era ormai tutti d’accordo.
Nessuno avrebbe più osato chiedere se la vera realtà divenisse o meno. Anche se, come era già apparso alla luce della grande svolta dialettica hegeliana, a costituire il ‘concreto’ sarebbe stato ancora e sempre l’essente. La cosa. Ovvero, la cosa concepita nella sua ‘determinatezza’. Solo in quest’ultima, infatti, già per Hegel, il divenire sarebbe potuto essere quello che è.
Insomma, la cosa non doveva più essere cercata in virtù di un processo di progressiva semplificazione, atto a liberarsi di tutto il ‘contingente’ in essa comunque esprimentesi – sino al raggiungimento di quella ‘sostanza immutabile e semplice’ che la vita fenomenica della cosa medesima avrebbe finito per mascherare od offuscare. No, la cosa – il moderno l’avrebbe riconosciuto con sempre maggiore esplicitezza – era qualcosa di originariamente “complesso”. Perciò doveva essere compresa nella compiutezza di quel che la sua vita sarebbe stata destinata a portare ancora in luce.
A nulla, cioè, sarebbe servito isolarne l’essenza immutabile (l’eidos), se non per coglierne l’unità ‘concreta’.
Per unire, cioè, tutto quello che, della cosa stessa, il movimento della vita sarebbe riuscito a rendere manifesto.
Certo, il “moderno” aveva rifiutato l’approccio ‘astratto’ della metafisica classica – per riconsegnare la cosa stessa (ogni cosa, animale o vegetale, organica o inorganica…) alla sua concreta compiutezza.
O anche, alla sua originaria complessità.
Conoscere non significava più ‘astrarre’ – ovvero, ridurre la cosa alla sua essenza sostanziale –, ma pervenire piuttosto a quella sintesi che solo il “concreto” (complesso, per definizione) ci avrebbe potuto consegnare.
Questa, la nota caratterizzante il sapere della modernità.

07.06.2021